INTERVISTA – Valerio Mastandrea: “Stiamo vivendo un vuoto, ma la ruota deve tornare a girare. Il nostro cinema? Solo il pubblico può salvarlo”
Non capita tutti i giorni di potersi sedere di fronte a Valerio Mastandrea, in questi giorni al cinema con La Sedia della Felicità (qui l’anteprima della scorsa settimana). Quell’attore che a 42 anni ha già all’attivo oltre sessanta film e che lo scorso anno è riuscito nell’impresa – non da tutti – di vincere il David di Donatello sia come Protagonista (per Gli Equlibristi) che come Non Protagonista (per Viva la Libertà).
Eppure, nonostante la bravura e la maturità che ha raggiunto, quello che si può considerare forse il nostro attore italiano più versatile e richiesto (anche all’estero), non si è mai montato la testa. Umile e disponibile, serio e simpatico, senza maschere. Simile ai suoi personaggi, senza che si accenda la macchina da presa, mi invita in camerino. Ci sediamo e iniziamo a parlare.
Tutti giù per terra, romanzo di Giuseppe Culicchia (1994), poi film (1997) di Davide Ferrario. Sono passati vent’anni a grandissima velocità, eppure quanto è ancora attuale il personaggio di Walter Verra?
L’attualità di Walter Verra, il suo nichilismo, è ritrovabile dappertutto, in tutte le epoche. Forse in questa epoca che viviamo adesso ancora di più. Anche se, facendo un discorso sociologico da 1 euro, chi ha trent’anni oggi è molto diverso da chi ne aveva altrettanti quindici anni fa. Lui era un personaggio che non credeva a niente e cercava in continuazione di aspirare ad una felicità assurda e impossibile che riconosceva come tale. Oggi il vuoto è talmente maggiore che va oltre a quello interiore verso se stessi. Il vuoto di oggi è sotto gli occhi di tutti e riguarda tutti.
Un senso di smarrimento che chi si può trovare anche in Notturno Bus (2007) di Davide Marengo, Tutta la vita davanti (2008) di Virzì fino a Gli Equilibristi (2012) di Ivano De Matteo…
I personaggi che ho affrontato in questi vent’anni hanno un minimo comune denominatore: si fanno delle domande ma non sempre trovano delle risposte. Sono anche i personaggi più interessanti da fare per un attore. Sono ambigui, controversi, incompiuti e si possono metterci dentro un po’ di cose.
Come vedi la situazione? La ruota può tornare a girare per l’Italia?
Non lo so, ma io ci credo per forza. Oggi si fa molta fatica ad accettare questa situazione, però la ruota potrebbe tornare a girare…
Cosa pensi del web e soprattutto della logica dei social? Quanto stanno cambiando la vita delle persone e quanto stanno influendo anche sul cinema?
Non so quanto possano cambiare l’arte. Sicuramente influenzano i rapporti umani. Io ho Twitter e lo uso abbastanza goliardicamente e mai a fini professionali. La compulsività in cui si può incappare fa riflettere. Già gli SMS, quando li inventarono, permettevano di superare la propria timidezza. C’è un rischio nel web, come in tutte le cose incredibilmente nuove e potenti: scambiare la vita reale con quella virtuale. Anche se il virtuale fa parte ormai del reale. Però mi spaventa pensare, ad esempio, come oggi i quattordicenni possono scoprire il sesso su internet. Rispetto a quando ero ragazzino io, sono cambiate tutte le dinamiche.
Marchi ovunque, tempesta di messaggi pubblicitari. Penso a certi film infarciti di product placement o al calcio dove i calciatori sono diventati aziende a sé stanti. In un momento di crisi così, quanto gli sponsor e le pubblicità stanno alimentando o al contrario spegnendo i sogni di un tempo?
Penso che stia implodendo anche quell’aspetto. Il capitalismo, con tutte le sue massime concezioni, sta implodendo facendo il giro su se stesso. Oggi è molto difficile vedere una partita allo stadio di sera senza confondere il campo dai cartelloni pubblicitari. Nel cinema gli sponsor servono a racimolare soldi per poter fare i film. Non è un discorso semplice, ti servirebbe un economista (ride ndr.). L’importante è saper distinguere tutto quello che fa sport e cultura da quello che può essere strumentalizzato e riempito di soldi.
Cosa pensi di film acclamati come La Grande Bellezza e Il Capitale Umano? Secondo te hanno mostrato un’Italia perdente?
Quei due film per me non rappresentano un’ammissione di sconfitta, ma una lente che ingrandisce la decadenza del Paese e dei suoi aspetti principali. Penso che ad una decadenza segua sempre una riscossa, se si prende atto veramente e concretamente di quello che significa.
Tu sei impegnato anche con la Scuola d’Arte Cinematografica Gian Maria Volonté. La recente vittoria di Sorrentino può essere un scossa per tutto il cinema italiano?
Bisogna essere contenti per questo Oscar. Magari non farà bene al cinema italiano, ma farà bene al pubblico italiano nei confronti del cinema italiano. Ed è la cosa che – faccio questo mestiere da vent’anni – si recrimina di più, ovvero che la maggior parte del pubblico detesta il cinema italiano senza prenderlo neanche in considerazione. Lo guardano a casa solo come fiction per la tv, mentre al cinema vanno solo per i film americani o le nostre grandi commedie che invadono il territorio visto che vengono distribuite oltre il 75% delle sale.
Quindi il pubblico al primo posto…
L’aspetto più importante è quello del pubblico: se c’è un pubblico che ama il cinema che lo rappresenta e lo racconta, forse tutto funzionerebbe in maniera diversa.
Rispetto ad altri Paesi come siamo messi sotto questo aspetto?
In Francia ad esempio non chiude nemmeno un cinema. Il numero dei biglietti venduti è altissimo, la gente ci va da oltre cento anni, non perdendo mai il contatto. Poi da loro la tv è sempre stata meno influente da come lo è stata da noi.
E in Italia?
Anche da noi era così: andare al cinema era un rito collettivo che faceva parte della socialità delle persone. Adesso pensare di vedere e amare un film davanti ad un computer o alla televisione ha cambiato anche il modo di andare nelle sale. Bisogna tornare ad enfatizzare la straordinarietà del cinema, al di là dei film che escono. Poi ognuno è libero di scegliere, non è che bisogna amare il cinema incondizionatamente.
In La Sedia della Felicità sei tornato a lavorare con Isabella Ragonese. Purtroppo è stato l’ultimo film di Carlo Mazzacurati. Puoi regalarci un tuo ricordo di Carlo?
Ho avuto l’onore di lavorare con Carlo. Purtroppo è arrivato tardi, perché avrei voluto conoscerlo di più e condividere con lui più cose. Eppure i mesi che ho passato con lui sono valsi anni. Era una persona molto in sintonia con un sacco di cose che mi appartengono. Dal senso della vita, al senso del lavoro. Amavo i suoi lavori, già da quando vidi il suo Un’altra Vita. Ricordo ancora, era il 1995, facevo l’attore da un anno e lo andai a vedere da solo. Non sapevo ancora chi fosse Mazzacurati eppure quel film mi colpì moltissimo. Da lì in poi ho sempre sperato di poter lavorare con lui, anche se non gliel’ho mai detto. Non l’ho mai detto a nessuno. Anche perché ci eravamo visti poche volte.
Invece poi vi siete finalmente trovati…
Quando è arrivata questa chiamata sono rimasto felicissimo. Soprattutto di aver contribuito a fare un film che lui amava moltissimo. Da quel punto di vista non ho rimpianti. L’unico rimpianto che ho è non poter più condividere con Carlo le mille e più contraddizioni della vita e di questo lavoro. Era uno con cui potevi sempre confrontarti in una maniera sincera o dichiaratamente finta: non si poteva mai bluffare con lui.
Parliamo del tuo ultimo spettacolo teatrale. In Qui e Ora il tuo personaggio fa lo Chef in radio!
Sì, un mestiere assurdo, mi viene in mente anche “Balletti in radio” (sorride ndr.). L’autore dello spettacolo è un amante quasi maniacale della cucina. La nostra non vuole essere una critica a programmi come Masterchef. Io in realtà non sono esperto di ricette, però mi piacerebbe fare dei corsi per imparare.
Che spettacolo è?
È un testo tagliente, una critica affilata ad un inganno. Quello che si possa occupare un posto di maggior livello in questa società, in questo Paese e in questa epoca, pur facendo qualcosa di assolutamente normale e privo di eccellenza. È uno spettacolo che parla della ricerca sfrenata del nemico da parte di noi italiani. E quasi sempre sbagliamo obiettivo, cercandolo nelle cose semplici, nelle persone semplici, nelle figura più lontane da noi. In realtà il nemico più grande siamo noi stessi.
CAMERALOOK
Quando ho guardato in macchina io la prima volta e mi hanno detto “Stop!”. All’inizio la camera è una presenza fastidiosa e ingombrante.
Intervista di Giacomo Aricò