I figli di Lea
I figli di Lea
Mi chiamo Lea almeno credo, perché così si rivolgono a me gli umani quando mi guardano.
Credo di essere una leonessa perché così c’è scritto sulla targhetta esposta nella gabbia dove sono rinchiusa.
I miei primi ricordi risalgono a qualche anno fa quando, ancora cucciola, mi portarono su per delle scale in un posto piccolo e buio. Fuori pioveva e in quella piccola gabbia mi accolsero due umani.
Uno grande e l’altro più piccolo, un cucciolo come me di nome Fabrizio.
Mi mise un collare e mi guidò giù per delle scale ripide e strette. Io avevo tanta forza e tiravo senza saperlo; lui mi gridava “Piano Lea, piano Lea”. Chissà cosa voleva dire? Arrivammo fuori da quella grande gabbia. Un cartello indicava: “Comune di Modena”.
Ci raggiunse anche l’umano più grande che chiamavano Franco. Salimmo su una strana gabbietta con delle ruote e delle cose trasparenti che permettevano di vedere attraverso.
Faceva freddo anche se ho una belle pelliccia e quando la gabbia si mise in movimento subito le cose trasparenti non furono più trasparenti. Mi avvicinai e con la lingua cominciai a leccare: era acqua fresca. Fabrizio disse a Franco: “È proprio bella e docile. Adesso dove la portiamo?” Franco rispose :”Andiamo al giardino pubblico dove c’è il leone e la mettiamo nella seconda gabbia che per fortuna avevamo costruito.”
Io non so cosa vuol dire vivere libera, ma la gabbia era grande e confortevole. In effetti, erano due gabbie: una interna coperta dove passavo la notte ed una esterna più grande dove potevo uscire durante il giorno.
Il giorno molti cuccioli umani venivano a trovarmi e mi chiamavano in coro:
<<Lea, Lea, dai vieni fuori !!!>>. Quando pigramente mi muovevo ed uscivo nella gabbia esterna era tutto un vociare e gridare: <<Hai viso come è grossa. Hai visto che denti quando sbadiglia!>>
La cosa più bella era quando Franco mi veniva a trovare e molte volte mi portava lui stesso una bella testa di cavallo o un bel pezzo di coscia di bue.
Poi apriva la porta della gabbia interna e io mi sedevo con le zampe incrociate e lui cominciava a grattarmi sulla fronte, in mezzo agli occhi. Io, la leonessa, li chiudevo e, lentamente, quasi mi addormentavo. Franco con la sua bella voce suadente mi diceva tante cose e mi vedeva crescere, diventare una leonessa grande che prima o poi avrebbe dovuto incontrare Leo, il leone maschio che viveva nella grande gabbia di fianco alla mia.
Franco aveva gli occhi buoni ed io per dimostragli il mio affetto gli mettevo le zampe sulle spalle e strusciavo la sua guancia con la mia.
Un brutto giorno, il guardiano mi portò da mangiare e mi buttò dentro la gabbia un pezzo di costato pieno di ossa. Come sempre spolpai tutto ma nessuno venne a pulire la gabbia. Mi addormentai aspettando la voce di Franco. Quando mi svegliai, non mi accorsi delle ossa e così ne pestai una. Emisi un ruggito acuto! Era la prima volta che sentivo il dolore. Un piccolo osso acuminato si era conficcato nella zampa anteriore sinistra. Giravo nervosa e zoppicante per la gabbia emettendo il mio richiamo. Tutti i tentativi di togliermi quella spina erano vani ed il dolore non cessava.
Verso sera il guardiano preoccupato per il mio nervosismo chiamò Franco che arrivò e cominciò a parlarmi: <<Cosa c’è Lea ? Cosa ti è successo?>>
Aprì la porta ed io mi avvicinai con un guaito. Mi sedetti e girai la zampa all’insù.
<<Bel guaio Lea, devi avere un bel male! Adesso devi stare ferma. Dopo vedrai che guarirai>>
Franco prese una pinza ed un liquido fresco. Con la pinza prese l’ossicino e via…
Il dolore era passato ! Il mio amico Franco mia aveva guarita!
Passavano i giorni, i mesi ed io ero oramai una leonessa adulta. Leo mi cercava e mi lanciava i richiami d’amore. Il giorno predestinato dell’amore, feci la conoscenza di Leo.
Era proprio un bel maschio; una folta criniera ed una lunga coda che agitava in continuazione.
In poco tempo rimasi in cinta.
Passavano i giorni ma io non mi sentivo in gran forma. Avevo bisogno di muovermi, di saltare. Quando uscivo nella gabbia esterna ero nervosa e mi arrampicavo sulle barre per fare un balzo più lungo. Il dolore alla pancia non mi passava, anche se sentivo la vita che si agitava dentro. Franco non mi abbandonava mai e quando aprivano lo sportello della gabbia, mi grattava la fronte e mi diceva tante parole dolci.
I centoventi giorni della gestazione passarono in fretta, ma io capivo che la vita non si muoveva più nella mia pancia.
Chiamarono Franco ed il dottore degli animali. Solo con Franco vicino mi facevo avvicinare e così lui mi strinse la testa e mi fecero una puntura. Cominciai a sognare e sapevo che sarebbe stato l’ultimo, sì proprio l’ultimo sogno.
Vagheggiai Franco che mi accarezzava e piangeva, mentre teneva in braccio i miei tre cuccioli. Sognai ancora Franco che mi baciava la fronte e mi diceva “Ciao Lea, mai più, mai più …”
Poi le porte della gabbia si apersero ed il giardino fu tutto per me. Saltavo e correvo felice.
Ero libera come la natura mi aveva fatto!
Dedicato a Iole, donna con lo stesso spirito di Lea
di FABRIZIO FRIGIERI-TONI