Le pari opportunità tra uomo e donna
LE PARI OPPORTUNITÀ TRA UOMO E DONNA SECONDO LA NORMATIVA EUROPEA E QUELLA ITALIANA
La normativa europea definisce il principio di pari opportunità come l’assenza di ostacoli alla partecipazione economica, politica e sociale, di un qualsiasi individuo per ragioni connesse al sesso, genere, religione, convinzioni personali, razza, origine etnica, disabilità, età e orientamento sessuale.
Il primo riconoscimento effettuato dalla comunità europea sin dalla sua nascita, è stato il principio della parità di retribuzione e, sulla base di tale principio, ha sviluppato un insieme coerente di leggi mirate a garantire pari diritti tra uomo e donna in materia di accesso all’occupazione, di formazione professionale, di condizioni di lavoro e di protezione sociale.
Al riguardo, in particolare, vanno annoverate la direttiva 75/117/CEE del Consiglio del 10.02.1975 volta ad ottenere il ravvicinamento delle legislazioni degli stati membri relative all’applicazione del principio della parità delle retribuzioni tra i lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile, e le direttive del 1976 inerenti la parità di trattamento tra uomini e donne in ordine all’accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali. La parità di trattamento implica l’assenza di discriminazioni dirette ed indirette fondate sul sesso in riferimento soprattutto allo stato matrimoniale e familiare.
Successivamente, con la raccomandazione del Consiglio delle Comunità Europee n.635 del 13 dicembre 1984 sulla promozione di azioni positive a favore delle donne, le cosiddette azioni positive iniziano a diventare uno strumento operativo della politica europea, nell’intento di promuovere la partecipazione delle donne a tutti i livelli ed in tutti i settori delle attività lavorative.
Le azioni positive possono essere classificate in azioni di natura promozionale, cioè volte al superamento di posizioni di svantaggio delle donne nel mondo del lavoro, e di natura risarcitoria, ovvero propositive di soluzioni alle discriminazioni in atto, con particolare riferimento alla retribuzione e alla carriera.
Il fine delle suddette azioni positive ha lo scopo di eliminare la disparità nella formazione scolastica e professionale, nell’accesso al lavoro, nella progressione e nello svolgimento dell’attività lavorativa; di favorire la diversificazione delle scelte professionali delle donne, il loro accesso al lavoro autonomo e alla formazione imprenditoriale, superare la distribuzione del lavoro in base al sesso; di promuovere l’inserimento delle donne nelle attività in cui sono meno presenti e ai livelli di responsabilità; favorire, da ultimo, l’equilibrio tra responsabilità familiari e professionali e una loro miglior ripartizione fra i sessi.
E’ poi con la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, firmata a Nizza il 07 dicembre 2000, che vengono ripresi, in un unico testo, i diritti civili, politici, economici e sociali dei cittadini europei e di tutti coloro che vivono sul territorio dell’Unione. In particolare, per quanto riguarda l’argomento di nostro interesse, l’art. 23 della Carta di Nizza recita testualmente che : “la parità tra uomini e donne deve essere assicurata in tutti i campi, compreso in materia di occupazione, di lavoro e di retribuzione. Il principio della parità non osta al mantenimento o all’adozione di misure che prevedano vantaggi specifici a favore del sesso sottorappresentato”.
I buoni propositi della normativa comunitaria, non si può certo dire che non siano stati recepiti dalla legislazione italiana.
Nel lontano 1995, ad esempio, sulla scia della conferenza mondiale sulle donne, tenutasi a Pechino, nasceva in Italia il Ministero per le pari opportunità che, sin dalla sua istituzione, ha elaborato numerose proposte di legge.
Con legge 183/2010 (art.21) è stato infine istituito il Comitato Unico di garanzia per le pari opportunità e la valorizzazione del benessere di chi lavora contro le discriminazioni (C.U.G.), che ha unificato i preesistenti comitati locali per le pari opportunità e quelli contro il mobbing; fenomeno, quest’ultimo, che coinvolge in maniera prevalente le donne.
Nonostante i buoni propositi legislativi e programmatici, a tutt’oggi le donne in Italia restano comunque sottorappresentate, sul piano numerico, in molti ambiti, da quello politico, a quello delle competenze nei centri decisionali. Nel tentativo di perseguire l’obiettivo di una equilibrata rappresentanza fra i sessi, si è focalizzata l’attenzione sull’utilità e sulla praticabilità dell’azione di quote garantite (le cosiddette “quote rosa”), tenendo in considerazione anche la questione della legittimità del “discriminare per uguagliare”.
Da ultimo, sulla scorta delle indicazioni date dalla Corte Costituzionale con sentenza n.422/95, che ha dichiarato illegittima la riserva di quote a favore delle donne in quanto lesiva del principio di uguaglianza, si è arrivati alla modifica, o meglio all’integrazione, dell’art.51 della Costituzione, laddove è stato aggiunto il secondo comma che sancisce testualmente che: “la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra uomini e donne”.
La strada da percorrere, per arrivare ad una concreta parità tra i due sessi, soprattutto nel mondo del lavoro, è però ancora lunga!
Si evidenzia infine che, con sentenza del 16 aprile 2009, la Corte di Cassazione ha affermato un importante precedente, destinato ad affidare un ruolo sempre più di primo piano alla figura della “Consigliera per le pari opportunità” nella tutela delle lavoratrici. Detta sentenza ha infatti riconosciuto alla figura istituzionale de qua il diritto di costituirsi parte civile nel procedimento penale per molestie sul lavoro ai danni delle donne, e ciò in quanto le molestie, anche sessuali, sul luogo di lavoro, non costituiscono solamente un reato contro al persona (ovvero contro la lavoratrice danneggiata), ma anche un danno alla collettività.
Avv. Claudia Comi
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