Meriggio Italiano _ Marzo

Che sia estate o inverno, andare in bici mi rilassa. Fa circolare i pensieri. Anche il treno, ma in bici viene più aria e senz’altro le idee si rimescolano meglio, ed è di un minestrone che abbiamo bisogno, o almeno serve a me, per produrre qualcosa. E mi viene in mente come tutto questo è iniziato, voglio dire come è capitato che ho tolto le rotelle ed ho preso la bici “da grande”. Sono passati quarant’anni e la bici “da grande” era blu, il che era piuttosto regolare per un bambino, per quanto già abbastanza cresciuto. Allora andavano le Grazielle, la mia invece si chiamava Patrizia (che non sarà il massimo del nome, ma mi pareva più carino di Graziella, e almeno non era un diminutivo). Mi piaceva poi anche perché mi metteva un po’ fuori dalla norma, avere una Patrizia invece di una Graziella, e a me è sempre piaciuto essere diverso dal comune. In quegli stessi tempi era successo lo stesso con l’auto che papà aveva appena comprato, e che era uscita di produzione qualche settimana dopo, lasciandolo un po’ sconcertato: un’Autobianchi A111. Non A112, che sarebbe stato normale (una specie di Graziella a motore). Dell’A111 ero orgoglioso e lo dicevo a qualche amico o a qualche genitore dei miei compagni, ed inevitabilmente la replica era, a volte anche un po’ saccente, che mi sbagliavo (povero bimbo), ed era un’A112. “No, proprio A111!” rispondevo gentilmente ma con fermezza (mi ero allenato). Ma quasi nessuno la conosceva, l’A111, ed immaginavo che questo signor Bianchi che faceva le auto (ed anche le bici come la Patrizia) non ci avesse speso tanto in pubblicità, o forse gli venivano bene le Bianchine e qui con le dimensioni non ci eravamo. Ancora peggio ci rimasi quando qualcuno mi disse, dopo averla osservata, che era una specie di 125, commentando poi che, come quella, non avrebbe avuto successo. Ma torniamo alla bici: quando la prendemmo con papà era un sabato. Per una settimana, dopo il lavoro (era già primavera), si mise a spingermi con entusiasmo e determinazione prima sul marciapiede davanti casa, poi nel parcheggio deserto del campo sportivo. Per poi concludere, il sabato successivo, che non ce l’avrei mai fatta: non aveva spugne in mano, ma il senso era quello. Il giorno dopo andavo da solo. E, se Dio vuole, eccomi qua.

di Carlo Santulli