SPECIALE – Arancia Meccanica, dal cinema al teatro: intervista a Daniele Russo
Stasera al Teatro Bellini di Napoli andrà in scena Arancia Meccanica, quel capolavoro assoluto scritto da Anthony Burgess 51 anni fa e portato sul grande schermo nel 1971 da un genio chiamato Stanley Kubrick. Ne parliamo con Daniele Russo che vestirà i panni del protagonista, Alex DeLarge.
Manca pochissimo alla prima di Arancia Meccanica. Che emozioni provi?
Sono agitatissimo (ride ndr.)! Sarà una cosa eclatante secondo me… Il testo è meraviglioso e il personaggio è clamoroso. Il magma dentro al romanzo è tanto. C’è un’idea di scenografia pazzesca e la musica di Morgan. Ci sono tutti i presupposti per fare un bello spettacolo.
Interpreterai niente meno che il protagonista!
A volte non mi rendo conto: sto facendo Alex DeLarge! L’ha fatto solo quel Padre Eterno (Malcolm McDowell ndr) che ci è rimasto bloccato dentro tutta la vita. È un personaggio sconvolgente anche per chi lo interpreta.
Come ti sei preparato?
Ho smesso di guardare il film già da un po’ (ride ndr.)! Se no rimani fregato, quello è un genio ragazzi. Anche perché il testo teatrale che è scritto dall’autore del romanzo non è troppo distante dal film. Questo è uno dei pochi film in cui Kubrick non ha stravolto il romanzo, a differenza di Shining che Stephen King contestò e rigirò per conto suo, anche se per me il regista lo aveva nobilitato.
Cosa pensi del libro di Burgess?
Kubrick è rimasto molto fedele al libro, non l’ha tradito. Molti hanno visto il film senza averlo letto, ma si tratta di un romanzo epocale di un’attualità sconvolgente. Scritto da una grande penna, ed è quello che fa la differenza: questo testo, per tutto quello che ha dentro, ha davvero quattro palle.
Del film di Kubrick quindi quanto ci sarà?
Sarà un impianto completamente diverso, anche se, come detto prima, la storia, il personaggio, sono quelli. Il regista è Gabriele Russo e la sua idea mi sembra molto convincente. La storia sarà un viaggio e penso che tutti i ragazzi che verranno a vedere lo spettacolo potranno rimanere folgorati. Il paragone ci sarà, anche se la chiave di regia sarà diversa. Un po’ dovevamo discostarci, non saremo vestiti come i Drughi nel film, se no sarebbe una recita di carnevale.
In tema di violenza ha fatto qualcosa anche Haneke, soprattutto con Funny Games, che nel remake americano, a livello di trailer, fu accostato proprio al film di Kubrick. Tu cosa ne pensi?
Ho visto entrambe le versioni di quel film, sia quella austriaca che quella americana. Haneke è sicuramente più agghiacciante e crudo, Kubrick è invece più onirico. Il primo Funny Games è stato veramente un capolavoro. È stato un folle a rifarlo inquadratura per inquadratura dieci anni dopo (ride ndr.)! Il fatto che i due ragazzi violenti erano vestiti di bianco secondo me era sicuramente un omaggio a Kubrick.
Haneke disse che quella di Kubrick era violenza coreografata e che ci siamo lasciati scioccare…
Chi ha visto Arancia Meccanica si ricorda soprattutto le scene di violenza dei Drughi, anche se in realtà durano solo 20 minuti. Il film è invece incentrato sulla fantapolitica, sul controllo delle menti. La scena iniziale del pestaggio in teatro tra le gang di Alex e Danny è sicuramente straripante. Kubrick non è splatter, Haneke il sangue te lo fa vedere, anche solo su una parete. Haneke ha una crudezza incredibile, Kubrick invece ti fa viaggiare.
Tra i due chi preferisci?
Sono due cose diverse, però ovviamente scelgo Kubrick. Vidi una sua bellissima mostra fotografica qualche anno fa a Milano: una testa gigante la sua.
Perché la violenza colpisce sempre lo spettatore?
Ne rimaniamo sempre attratti, non perché ci piaccia la violenza in sé, ma perché ci mette a nudo, facendoci vedere dentro al nostro animo. Mi piacciono i Mafia Movie, non me ne sono perso uno e a volte io tifo pure per i cattivi (ride ndr.)! Kubrick e Haneke, in questo genere, sono riusciti a fare due capolavori sconfortanti.
Nel 2014, in questa terra selvaggia del web, c’è un rischio di imitazione della violenza per le personalità più fragili e a rischio?
Il web è un mezzo dalla potenza inaudita e teoricamente incontrollabile. Da un lato è una risorsa perché consente di far nascere fiori spontanei, tutto l’opposto di una coltivazione settaria studiata a tavolino. Dall’altro lato però, se non lo sai usare, è sicuramente dannoso perché ti porta a teorizzare una cultura.
Soprattutto sui social?
Spesso li uso per informarmi, magari quando sono in viaggio. È come leggere un giornale. Trovi le notizie ma anche tante cavolate inutili che ti distraggono e basta. Io so discernere, ma i più giovani forse rischiano di farsi idee sbagliate. I ragazzini nati con internet mi spaventano. Sono padroni di questi mezzi tecnologici ma non sono padroni di una cultura che prescinda da quello.
Intervista di Giacomo Aricò